Addis Ababa, quel “pezzo d’Africa” dove tutto è di più.

Addis Ababa in Etiopia, Africa. La mia prima volta in questo immenso continente dove la natura è davvero ancora libera. L’Africa è polvere, terra, umidità e siccità, distanze interminabili e strade dissestate. Ma è anche colore, musica, sorrisi, riti e cultura. I ricordi più belli, più intensi che mi sono rimasti di questo viaggio sono le persone, i bambini, i sorrisi, il caos delle strade, i mercatini di frutta esposta a terra sulla strada senza asfalto, i sacchi di berbere, la tipica spezia africana. Stavolta la ricchezza non appartiene agli alberghi o ai resort esclusivi ma alle persone …

I loro visi, le loro movenze, i loro sguardi, sinceri, limpidi, capaci di regalare emozioni, che non vorrò dimenticare. La loro vita scorre allo stesso ritmo della natura che li circonda, il tempo scorre, non corre, tutto è lento, anzi più lento, tutto è di più anche il buio è più buio. Situazioni difficili e dolorose, al confine dell’umano comprensibile, una povertà estrema ma che non spaventa, che unisce, una povertà vissuta sulla strada come fonte di vita, dentro baracche fatte di lamiere e materiali di scarto, tra negozi improvvisati sul terriccio polveroso, tra gli odori di tante spezie, tra i colori degli abiti indossati e l’ocra di quella terra che si confonde con l’azzurro di quel cielo e s’incontra con il nero della loro pelle. Non hanno nulla eppure invidio la purezza dei loro sorrisi, la semplicità dei loro modi. Invidio la forza con cui affrontano la loro quotidianità, una forza che forse è anche speranza. Non  è facile descrivere le sensazioni provate, le emozioni, … è una realtà complessa, intensa. Un connubio di disperazione e allegria, impensabile per noi, eppure possibile. In questo “pezzo di Africa” tutto è più naturale, più spontaneo… il saluto quando incontri qualcuno, anche se non lo conosci, tenersi per mano solo per amicizia, senza differenza tra sessi, sorridere per ringraziare, tutto è vero come anche la stanchezza di giovani donne piegate dal peso dei sacchi o dei propri figli legati sulla schiena o ai tanti bambini con i vestiti sdruciti e impolverati che giocano allegri per le strade fangose. Qui tutto è speciale, unico, diverso. In Etiopia i mesi dell’anno sono tredici, le note musicali sono dieci ed ogni giorno sembra un miracolo divino.

Queste tre settimane vissute in un pezzo di Africa, che non è quella dei safari o delle grandi montagne o degli immensi deserti o delle meravigliose coste di fronte l’oceano ma è l’Africa “povera”,  mi hanno messa di fronte ad una realtà dove la vita ha un significato molto diverso, e allora iniziano le riflessioni, le domande su come merita di essere vissuta questa vita…ed oggi non voglio solo raccontare  quali siano state le mie emozioni ma vorrei  contribuire a fare sapere, vorrei contribuire a trasferire ciò che ho visto non con gli occhi di un turista ma con gli stessi occhi di tanta gente come me, come noi e come loro.

Vorrei riuscire a fare comprendere quanta generosità può esistere in tanta povertà, quanta dignità in tanta fatica, quanto voglia di vivere in tanta disperazione, una voglia di vivere che è difficile da spiegare se non la guardi negli occhi di chi la vive. Ma è la sera il momento magico, quando il sole tramonta e il buio inizia ad avvolgere ogni cosa, senti che loro continuano a vivere in quel buio, si sente la loro vita, i loro canti la loro musica che ti lascia immaginare uomini e donne che ballano a piedi nudi sulla terra rossa e ancora calda, quel ritmo è coinvolgente e i loro sorrisi ammiccanti non sono mai volgari, ed immagino che sia il loro modo di salutare un giorno che è finito mentre accolgono il nuovo giorno con la consapevolezza che accontentarsi non è sempre una sconfitta e che vivere alla giornata è un buon metodo per aggiornare l’esistenza. Oggi mi sento di ringraziare quel “pezzo di Africa” per quel pezzo di me che è cambiato per sempre ed interroga la vita…

Della cucina etiope porto con me a casa il profumo delle loro spezie, l’aroma del loro caffè, i loro sughi speziati e il piacere conviviale e di condivisione del pasto, usando le mani al posto delle posate. Da leccarsi le dita!

Stavolta provo a rifare in casa la ricetta dell’injera, si legge “ingera” ed è l’equivalente del nostro pane ma ha la consistenza di una crêpe spugnosa e dal sapore acidulo, (per intenderci è quella posta sul fondo del piatto). Per chi volesse cimentarsi ecco la ricetta:

  • 500 g di farina di teff
  • 1 litro di acqua
  • 1 cucchiaino di sale
  1. Setacciare la farina in una ciotola capiente.
  2. Aggiungere lentamente l’acqua, mescolando delicatamente. Sino ad ottenere la consistenza di una pastella di crêpe leggermente più densa.
  3. Lasciare riposare la pastella per 2-3 giorni al buio.
  4. Aggiungere un pò di sale e mescolare per bene.
  5. Riscaldare una padella antiaderente e versare lentamente la pastella con uno strato sottile e con moto rotatorio. 
  6. In superficie si formeranno delle bolle d’aria, non girare e dopo qualche minuto lasciare scivolare su un piatto piano. Servire come in foto. Buon appetito.

Lasciamo questo “Pezzo d’Africa” travolti dai ritmi ipnotici e suggestivi della loro musica e dei loro corpi .

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